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I BENEFICI DELLE PENTOLE E TEGAMI IN TERRACOTTA

I benefici delle pentole in terracotta per una sana alimentazione

Nell’ultimo studio americano sui benefici dell’alimentazione mediterranea, vediamo stavolta comparire un elemento nuovo, sottolineato dalla National Diabetes Association. Il risultato in termini di salute infatti sarebbe influenzato non solo dall’impiego di prodotti freschi stagionali, ma dalla metodologia di cottura dei cibi ancora in uso nella culla antica del mediterraneo.

 ALIMENTAZIONE SANA 

 Pentole in coccio: alimentazione sana e giusta cottura 

La tradizione mediterranea infatti farebbe ancora ampio uso delle clay pots (pentole in terracotta), che non richiedono l’aggiunta di grassi o liquidi in eccesso. Un modo semplice, efficiente e compatibile anche con lo stile di vita del diabetico.

Come si cerca di spiegare ai consumatori americani del pasto veloce, le proprietà porose dell’argilla permettono uno scambio di calore e umidità ottimali, che ci dispensano dall’uso di oli e grassi in eccesso. Ma forse l’argomentazione scientifica non è la più convincente per chi sceglie di cucinare nel coccio. Il

motivo principale resta la soddisfazione del palato.

Paula Wolfert è una delle autrici più apprezzate negli Stati Uniti per i libri di cucina mediterranea. Il suo ultimo lavoro è «Mediterranean clay pot cooking», una panoramica sulle ricette utilizzate da una sponda all’altra del Mare Nostrum, con il metodo di cottura più antico del mondo, in grado di dare massimo risalto ai sapori delle pietanze. Dal Tajine  marocchino alle daubieres  provenzali, dalle cazuelas  spagnole alle nostre terrine e zuppiere, la Wolfert  ha esplorato direttamente tutte le esperienze culinarie, raccogliendo testimonianze che vanno anche al di là della gastronomia in senso stretto.

«Mia nonna» le ha raccontato un cuoco spagnolo «cucinava i cibi migliori nelle casseruole più vecchie. Diceva che le pentole trattengono la memoria del cibo cucinato e solo una pentola in terracotta può trasmettere di nuovo questa memoria antica ai piatti di oggi».

Una tradizione italiana da riscoprire

La cucina italiana è ricca di pietanze che richiedono una cottura in pentole di coccio. In particolare il Centro Sud italiano vanta una tradizione secolare che storicamente ha visto fiorire insieme all’artigianato una gastronomia particolarmente ricca di aromi e sapori decisi: intingoli, zuppe, spezzatini e legumi. Ma l’uso di queste tecniche di cottura è presente anche nel Nord Italia, con esempi culinari che vale la pena ricordare, perché purtroppo gli strumenti originari in coccio, oltre che dalle cucine, sono scomparsi dall’immaginario comune. È il caso dei testaroli della Lunigiana  , sottili dischi di pasta da tagliare

a quadretti, da scottare in acqua bollente per poi essere abbinati al pesto. Come ci dicono i vecchi di Pontremoli e dintorni, quelli che oggi si acquistano nei supermercati avvolti nella plastica, possono essere anche buoni, ma sono solo un pallido ricordo di quelli di una volta.

L’attrezzo indispensabile per la preparazione dei testaroli era infatti «il nero testo di porosa argilla» come lo chiamava il Pascoli. Al loro posto oggi però vengono comunemente utilizzati quelli in ghisa, con risultati non sempre soddisfacenti per il palato. Con il sapore si è persa anche una ritualità fatta di poesia e di gesti quotidiani carichi di attenzione. Dopo aver surriscaldato i due testi sulla fiamma del camino, quello superiore veniva ricoperto di brace ardente e di cenere, mentre l’altro veniva appoggiato sugli alari, sotto ai quali veniva accatastata la brace. La cottura lenta e uniforme, come raccontano i vecchi, conferiva al prodotto un sapore inconfondibile.

Qualche chilometro più a Nord, oltre i crinali delle montagne, incontriamo la tigella , una celebre focaccina da trattoria che si accompagna con ogni forma di companatico e del buon lambrusco. Le tigelle in realtà, gli emiliani autentici lo sanno bene, non sono il prodotto stesso, ma il nome degli stampi di terracotta con cui una volta si cuocevano le «crescentine» nelle zone montane dell’Appennino Modenese. Anche in questo caso gli attrezzi del mestiere

venivano messi a scaldare fra le braci del camino. Successivamente si impilavano inframezzate dall’impasto e foglie aromatiche di castagno, fino a cottura ultimata.

Seguendo la via Emilia verso l’Adriatico, in un percorso che va indietro nel tempo, scopriamo che nel coccio veniva cucinata anche la piadina, diventato un celebre prodotto del «fast food» in salsa romagnola, anch’esso con una nobile storia alle spalle. I documenti sulla fabbricazione degli appositi dischi di terracotta risalgono addirittura al 1527. In particolare nella storia economica regionale spiccano i tegliai di Montetiffi, che rifornivano tutta la Romagna con gli utensili necessari alla cottura di quello che era allora il pane quotidiano. Oggi Rossella Reali ed il marito sono gli unici depositari di questa antica tecnica artigianale basata sulla manipolazione dell’argilla.

La «teglia» è un disco di terracotta con i bordi rialzati, realizzato con un’amalgama di polvere quarzosa e terra rossa. La filiera di produzione in questo paese dell’alta valle dell’Uso è rimasta invariata nel tempo. «Continuiamo a farla nel modo tradizionale» racconta Rossella. «Andiamo di persona a procurarci l’argilla, che in questo territorio è particolarmente ferrosa. Una volta raccolta, la mettiamo ad asciugare, setacciandola a mano. Dopo averla ammollata tiriamo l’impasto su ripiani di marmo e poi lavoriamo la terra con il tornio. A questo punto, dopo un mese e mezzo, si fa cuocere nel forno a legna a 700 gradi per 8-9 ore».

La porosità del materiale fa sì che la teglia assorba l’umidità della piadina e le restituisce un aroma particolare insieme al fascino antico. La teglia in questo caso è allo stato grezzo, non viene smaltata, ma fatta in terra, acqua e calcite. Tecnicamente è quello che si chiama una monocottura , grezza da fuoco. «Fino dall’ultima guerra» racconta Rossella «erano almeno una dozzina le imprese artigianali dei maestri tegliai. Poi nei tempi del boom delle piastre e dei forni elettrici i vecchi chiusero bottega». Con la riscoperta dei prodotti tipici oggi le teglie di Montetiffi riscuotono un nuovo successo di privati e ristoratori alla ricerca dei gusti originali. Per rendere praticabile il suo uso nelle nostre misere cucine moderne, Rossella e il marito Maurizio si preoccupano di produrre teglie di un diametro più piccolo di 30 cm, così si riesce a scaldare anche su un normale forno a gas». La teglia resiste alle alte temperature, anche alla fiamma diretta, l’unico problema è che bisogna stare attenti all’umidità: mai lavarla con l’acqua e lasciarla bagnata!

Salute e sapori naturali

Bella e decorativa in cucina, la pentola in terracotta è l’ideale per la cottura di legumi, cereali integrali, stufati e minestroni. Mentre tutti i metalli assorbono rapidamente il calore, e altrettanto rapidamente lo trasmettono al cibo, la terracotta funziona come un isolante: si scalda molto lentamente, e cede molto lentamente il calore che ha assorbito. Questo ne fa il materiale ideale per la cottura di quei piatti che richiedono lunghe cotture senza sbalzi di temperatura, per cui è importante che il riscaldamento iniziale sia graduale. La macrobiotica ci va a nozze.

«L’unico vero inconveniente è che bisogna trattarle con cura» spiega Laura Pozzi, maestra di cucina naturale, diplomata al Kushi Institute. «Se si mette una pentola dal frigorifero direttamente sulla fiamma abbiamo una buona probabilità di romperla per lo sbalzo di temperatura. La stessa cautela vale anche per il passaggio inverso: quando si toglie dal fuoco non bisogna lavarla subito con acqua fredda». Per quanto riguarda la qualità dei cibi Laura però

non ha dubbi. «Restituisce al cibo i suoi sapori naturali. Con i tempi in effetti bisogna ricordare che la cottura prosegue anche molto dopo aver spento il fuoco».

Gli esperti intervistati ci suggeriscono di scartare anche le terracotte smaltate con vernici troppo colorate o giallastre, che se provengono da paesi come la Cina o il Nord Africa, potrebbero ancora essere a base di piombo. Come «prova del fuoco» si può provare a batterla sul bordo: il suono non deve essere sordo ma piuttosto tinnulo, indice di una cottura ad alta temperatura, quindi di una pentola resistente.

Argilla refrattaria: la filosofia del cibo lento

Cose di argilla nasce nel 1987 a Milano, nello storico quartiere Ortica, in una piccola bottega nel cuore della vecchia città cantata da Enzo Jannacci. Nel rispetto della più antica tradizione ceramica italiana Riccardo, Bianca e Simona hanno voluto  ripercorrere il sentiero del «fatto a mano», come dicono loro, con «acqua, terra, fuoco e un po’ di cuore». Trasferitisi in Brianza, continuano la produzione ed il recupero di una tradizione mediterranea del coccio, specializzandosi in quelle che definiscono «pentole dedicate».

«I nostri nonni» racconta Riccardo Ferri «usavano poche pentole, ma ognuna per un uso specifico: ad esempio una per il sugo, una per i fagioli e una per le torte. Ognuna di esse ha delle caratteristiche uniche». Il laboratorio ha sfornato prodotti particolari, che si erano andati perduti nei secoli. Come la pentola in coccio per la cottura delle caldarroste, con i consueti forellini sul fondo e due manici robusti per sorreggerla. Le castagne, ben cotte anche all’interno, rimangono così ben calde e possono essere portate con più gioia a tavola. Altri esempi curiosi sono le pentoline per mele al forno, o il neonato «Fornetto Versilia», una casseruola bombata con all’interno un cilindro, che consente di fare il pane direttamente sul fuoco.

L’impasto utilizzato per la cottura delle pentole è costituito da argille refrattarie toscane. La vetrina , il caratteristico rivestimento lucido utilizzato come smalto, è rigorosamente apiombico, in conformità alle leggi vigenti in Italia. La cottura ad alte temperature (fino a 1300 gradi), come ci assicura Riccardo, garantisce che le sostanze potenzialmente tossiche dell’impasto se ne vadano via subito senza più ripresentarsi al momento dell’uso.

Pentole non smaltate

Nonostante tutto però c’è chi la pentola la preferisce non smaltata. «Io ad un privato la do volentieri» confessa Riccardo «però preferisco fornirgli qualche raccomandazione in più. Le indicazioni di legge infatti prescrivono che i prodotti per alimenti siano igienici e facilmente lavabili. In realtà per i materiali non smaltati non ci sono particolari problemi di tossicità, ma è indispensabile utilizzare il tegame o la stoviglia solo per un uso esclusivo a causa della porosità della materia. Nella teglia in cui cucino una torta salata non posso permettermi di fare un dolce. L’argilla è penetrabile a tutto, ai sapori, ma anche alle sostanze potenzialmente tossiche come i detersivi. Per il lavaggio è bene dunque utilizzare solo acqua e nient’altro».

Le regole di buon uso valgono per tutte le pentole, anche quelle smaltate. In particolare, come ci spiega Riccardo, per saturare i pori prima dell’utilizzo si devono immergere in acqua per 7-8 ore. Se si vuole togliere l’eventuale sapore di terra, si possono trattare poi con aglio, oppure con una bollitura di acqua e latte. Le avvertenze di manutenzione non finiscono qui: dopo il lavaggio va lasciata asciugare completamente: mai asciugare con uno strofinaccio e riporre al chiuso! L’umidità penetrata all’interno potrebbe far riemergere dell’acqua stagnante e determinare il cattivo odore delle pentole.

«Non c’è niente da fare, se si vuole far mangiare la gente bisogna porre molta attenzione» chiosa Riccardo. La cura di se stessi comincia da qui. «La filosofia del coccio è quella di essere una cucina molto slow, dove la cura del cibo richiede tempi più umani e qualche attenzione in più».

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